Giovanni Bruno: gli esordi, l’atletica e il ciclismo

La voce pacata, cristallina, le parole che scivolano veloci ma senza frenesia.

Deciso ma allo stesso tempo “gentile”, pronto a mettersi in ascolto senza sovrapporsi al suo interlocutore (prerogativa di pochi) per lasciare che i pensieri fluiscano liberi, senza fratture. È Giovanni Bruno, classe ’56, direttore di Sky Sport, oggi nei panni dell’intervistato e dello sportivo.

La sua carriera giornalistica ha inizio quasi per caso, doveva diventare medico e si è ritrovato a parlare di sport, dopo avere sistemato lo spinnaker di una barca a vela.

Sportivo fino al midollo, ha giocato a rugby in serie B, ha sciato a un buon livello, ha corso in gioventù, e da diversi anni è passato alla bici da corsa. Possiede due biciclette fatte ad hoc per lui da Fausto Pinarello, identiche a quelle del campione britannico Wiggins, mentre una terza campeggia nel suo ufficio con il telaio personalizzato in tartan (le altre due hanno gli interni scozzesi), che tradisce la passione sfrenata per la Scozia.

«Studiavo medicina, ero iscritto al quarto anno ma avevo degli scogli importanti da affrontare come anatomia patologica; diedi l’esame ma andò male e vidi nero. Il pensiero di ricominciare a studiare tomi mostruosi mi angosciava. Così pensai che la mia strada fosse un’altra, mi tornarono alla memoria le parole di un amico: “Tu sai tutto di sport, pratichi un sacco di discipline, giochi a rugby, vai in barca a vela, perché non metti a frutto questa cosa?”.

Senza dire niente ai miei genitori cominciai a cercare qualcosa nell’ambito del giornalismo, ma era abbastanza complicato, e allora con coraggio comunicai a mio padre che avrei lasciato medicina. Lui disse che ci sarebbe sempre stato un letto e da mangiare».

Il padre comprensivo probabilmente lo incoraggiò ad andare avanti, ma in suo aiuto arrivò anche la fortuna.

«Ero in barca a vela, quando un’altra imbarcazione si affiancò a me perché aveva dei problemi. Andai a bordo dell’altra barca e sistemai lo spinnaker. Beh su quella barca c’era il capo del personale del Tg 1. Cominciai a chiacchierare e mi propose un colloquio con Tito Stagno, che allora era il capo della redazione dello sport e questo fu l’inizio.

Allo stesso tempo cominciai a collaborare con altre testate, allora si poteva perché esistevano le edizioni della sera e potevo dividermi tra il giorno e la notte.

Fu un inizio fortunato che mi consentì di applicare ciò che conoscevo e sapevo fare meglio. Sicuramente se avessi continuato gli studi in medicina non avrei combinato nulla».

Ha sempre praticato tanto sport, anche se con il tempo ha dovuto lasciare il rugby.

«Era impossibile proseguire nel rugby a causa degli incidenti; giocavo in serie B nel Cus Roma. Mi sono rotto le ginocchia, il setto nasale, una caviglia e qualche costola. Ho iniziato all’ala, poi col n. 15 ho giocato bellissime stagioni come estremo. Scio ancora ma indosso dei tutori per proteggere le ginocchia».

Poi è arrivato il ciclismo che un grande giornalista di Telecapodistria, Sergio Tavčar, definì (mi spiega Bruno) “uno sport di arrotini semoventi”.

«Il ciclismo è subentrato per recuperare dagli incidenti provocati dallo sci. Non mi piaceva, ho un vecchio ricordo da ragazzo, mi trovavo a Roma nel Parco dei Daini e mi infilai in un tombino, la bici scomparve e io quasi. Da quel giorno dissi mai più bici. Invece seguendo per lavoro il giro d’Italia mi venne voglia di provare. Erano gli inizi degli anni ’90 e andò bene, perché possiedo una struttura fisica che sopporta la fatica».

Il ciclismo è oggi lo sport che pratica con maggiore regolarità.

«Mi alleno con continuità, sempre in considerazione del tempo che ho a disposizione. Abitualmente vado verso Monza (il giorno dell’intervista ha fatto 80 km), perché si possono fare tanti chilometri in piano. Generalmente sono solo, ma se capita mi attacco a qualche gruppo. A volte riesco ad andare anche con Sefano Allocchio (ex ciclista professionista dal 1985 al ’93).

Quando fa molto caldo, da maggio in poi, mi sposto verso Varese. Ci sono salite più belle, la temperatura è fantastica e c’è un panorama più divertente. Generalmente mi organizzo con Francesco Pierantozzi (giornalista) e un gruppo di forti ciclisti come Stefano Zanini (vincitore di due tappe al Giro d’Italia e una al tour de France) e Daniele Nardello (ex ciclista professionista)».

Meglio la salita o la pianura?

«In pianura non ho problemi, in salita sì, è questione di peso. Sono 80 kg, mentre chi pedala accanto a me è sui 70 kg fissi. Quindi prediligo la pianura e soprattutto, la discesa, rientra nel concetto dello sci, riesco a recuperare, freno poco e affronto le curve modello slalom gigante o discesa libera».

Mai provato a correre?

«Quando ero ragazzo mi piaceva molto la corsa. Andavo nella riviera sorrentina e correvo 10-12 km in salita. Facevo anche qualche gara fra amici. Ero molto più magro, 68-70 kg. Poi gli incidenti, le ginocchia malandate mi hanno impedito di continuare. Oggi se faccio una corsetta di 100 metri per prendere l’autobus mi fanno male le cartilagini. Ho rotto i legamenti quattro volte in totale. Ma in bici ho zero problemi.

Pensa che prima di iniziare la bici fumavo due pacchetti di sigarette al giorno, in particolare tra un tempo e un altro di una partita di rugby, ma anche tra una manche e un’altra di una gara di sci. Con il ciclismo e la nascita del terzo figlio ho deciso di smettere».

Nessuna dieta però per il Direttore, solo un cambio di regime alimentare durante la stagione estiva.

«Da marzo inizio a prestare più attenzione al cibo; tolgo la pasta, il pane e ahimé le mozzarelle. Se mangio una mozzarella (di bufala naturalmente), pago pegno e per due giorni di seguito mi trattengo ancora di più».

Lo sport è meglio viverlo o raccontarlo?

«Se riesci a fare entrambe le cose è il massimo. Se non puoi viverlo non riesci a raccontarlo. Ho fatto tante cime e posso capire la sofferenza che provano i ciclisti. Una salita noi amatori la facciamo a 11-12 all’ora, i professionisti a 32».

Tanti gli sportivi che ha incontrato e che l’hanno emozionato, ma uno in particolare gli è rimasto nel cuore.

«Alberto Tomba, vederlo gareggiare e vincere due medaglie d’oro alla mia prima olimpiade invernale di Calgary fu incredibile.

Ma l’emozione c’è sempre per tutti gli sportivi, per sapere raccontare devi metterci sempre passione».

E nell’ambito dell’atletica chi ricorda maggiormente?

«David Bedford, il fauno d’Inghilterra così chiamato per via dei capelli lunghi e i basettoni alla George Best. Ai Cinque Mulini, vederlo battere i primi atleti di colore, con cattiveria, rabbia e classe, fu davvero emozionante. Emozionante anche quando perdeva nelle gare che contavano come Mondiali e Olimpiadi. E poi la vittoria di Stefano Baldini ai Giochi Olimpici di Atene 2004, e quella di Gelindo Bordin nel 1988, fu incredibile quel recupero. Eravamo in ufficio, a Telecapodistria a commentare le gare, e vedendo Gelindo avanzare in quel modo salimmo sui tavoli a urlare di gioia. Ma anche Mo Farah, un genio della velocità sui 5 e 10 mila. Nel triathlon i gemelli Brownlee (doppietta oro-bronzo nel 2012 a Londra) in un Hyde Park stracolmo, con oltre 100 mila persone ad applaudire».

I prossimi eventi con l’atletica che organizzerà la tv satellitare?

«Speravamo molto nella prima edizione dei Giochi Europei di Baku (un evento continentale mutidisciplinare nata sul modello delle Olimpiadi, nda), in programma nel giugno di quest’anno e invece l’atletica pare essere in secondo piano. Nessuna squadra italiana parteciperà o se qualcuna va, convoca solo dei “baby”.

Ci stiamo orientando su Moto Mondiale e Automobilismo. Abbiamo seguito l’Olimpiade 2012 e di Sochi nel 2014 con 12 schermi in contemporanea, speravamo in qualche abbonato in più. Siamo un popolo di tifosi, forse poco sportivi. Seguiremo comunque i Mondiali di Pechino per il telegiornale. Ma tutto può cambiare e il ciclismo potrebbe essere la frontiera futura».