Franco Fontana: la fotografia è una maratona

«La fotografia è una gara di fondo; i 100 metri li possono fare tutti, una maratona no».

Franco Fontana non ha mai praticato atletica leggera, eppure ha attinto dalla corsa per spiegare l’essenza della sua amata fotografia a noi partecipanti (sì, ci sono anche io!) il primo giorno del suo workshop, in occasione del Toscana Foto Festival (in programma a Massa Marittima fino al 25 luglio) di cui è il direttore artistico da ventitré anni.

Classe ’33, modenese, sposato con Uti (la moglie che lo segue in tutti i suoi progetti lavorativi), è tra i più grandi fotografi italiani viventi, famoso in tutto il mondo per le sue istantanee dai colori accesi, i paesaggi razionali, e le pubblicità non convenzionali realizzate per importanti magazine e brands come Vogue America, Versace, Centre Pompidou e Ferrari, solo per citarne alcuni.

Il sorriso sempre presente, il serio alternato al faceto (ama raccontare barzellette, porre curiosi quesiti e fare pseudo lotterie mettendo in palio strani cimeli e libri), e una borsa sempre accanto stracolma di oggetti: spille, francobolli, lettere, pensieri, monetine portafortuna (incollate in modo da mostrare un solo lato), appunti e foto personali con personaggi noti incontrati nel suo interminabile cammino (Pavarotti, David Hockney, Giacomelli, Salgado…) e persino una pallottola di piombo raccolta sul campo di Waterloo.

Per descrivere la tua fotografia hai usato una metafora sportiva, puoi spiegarmela?

«Puoi fare una foto straordinaria che pubblicano in tutto il mondo, poi ti fermi e non fai più nulla per tutta la vita. Questi sono i 100 metri, un flash. Fare una gara di fondo significa continuare a esprimersi, fare conferenze, realizzare libri, esposizioni. Se mi fossi fermato ai paesaggi del 1970 avrei fatto i 100 metri, ma quelli li possono fare tutti. 42 chilometri invece no».

Ha una storia straordinaria il Maestro (o semplicemente Franco come lo chiamiamo noi corsisti, con cui abbiamo passato una settimana intera), fatta di sogni che si sono realizzati. Aveva quarant’anni quando decise di mandare tutto all’aria: una vita agiata e sicura, un matrimonio con due figli, un buon lavoro. Per mettere avanti i sogni. Lasciò la ditta di arredamenti (un’impresa che divideva con due soci-architetti) per dedicarsi completamente alla sua più grande passione: la fotografia.

«Ero arrivato a un punto che, nonostante si guadagnasse bene, non me ne fregava più niente, non avevo più voglia di consigliare il colore dell’ingresso o di altri ambienti. Ho optato per la fotografia (iniziai all’età di 27 anni, per gioco) ed è andata bene. Con questa scelta non ho più lavorato in vita mia; non faccio un mestiere ma vivo una realtà. Il fotografo è come colui che va a pescare per tutta la vita, per pura passione».

Secondo te dietro il tuo successo, oltre al talento, c’è anche un pizzico di fortuna?

«È stato fortunato Picasso? Beethoven? No, la fortuna è un’altra cosa, e anche io nel mio piccolo mi sono espresso per ciò che ho capito. Si diventa quello che si è. Non sono diventato uno scrittore, anche se pensandoci mi sarebbe piaciuto, oppure un musicista (avrei suonato il violino, lo strumento che prediligo)».

Le tue foto sono dei capolavori a colori, il bianco e nero non l’hai mai preso in considerazione?

«L’ho provato per curiosità, ma è finita lì. Il colore è una scelta di vita, come diceva Paul Klee: “Il colore è dove cuore e pensiero incontrano l’universo”. E anche Klee come me non giocava nella Juventus».

La fotografia è istinto, ragione o studio?

È istinto, emozione, è una specie di suggestione musicale. Il mondo, l’alfabeto, sono a disposizione di tutti, ma io scrivo “Buon Natale”, Dante la Divina Commedia; c’è chi da un pezzo di marmo fa un posacenere e chi la Pietà di Michelangelo. Le cose nascono e maturano quando è il momento, come diceva la filosofia zen: “A primavera stando seduti l’erba cresce”, perché la primavera è la sua stagione (questa frase ce l’ha ripetuta più volte)».

Non hai mai fotografato il movimento?

«Mai, non mi ha mai interessato, suggestionato. Ho conosciuto il proprietario del Manchester City, uno degli uomini più ricchi del mondo, mi ha chiesto di fotografare la squadra, ma non saprei da che parte girarmi. La calza, il dettaglio, la corsa… Date a Cesare ciò che è di Cesare».

Niente movimento, ma lo sport ti piace, l’hai praticato?

«Il calcio lo seguo da quando ho 15 anni; andavo a vedere il Modena quando giocava in serie A. Tu hai la Spal, fu una squadra gloriosa. E poi mi piace l’atletica leggera, i 100 metri (nonostante l’animo fotografico da maratoneta) e il salto in alto. Ho giocato a calcio, ho praticato a lungo ciclismo facendo anche delle competizioni. Indimenticabile la coppia Coppi – Bartali».

Dallo sport alla musica, secondo te si può materializzare in una foto?

«No, la musica è vaga, astratta come la mia fotografia».

Hai un archivio stracolmo di fotografie, se dovessi salvare solo uno scatto quale sceglieresti?

«L’Orizzonte di Comacchio, del 1976. È la foto che mi interessa di più, per il concetto di circolarità. Ero sull’argine della laguna comacchiese, c’era questo orizzonte e zac. Era già dentro di me. A fine secolo hanno chiesto a diversi critici quale fosse la scultura da salvare, la pittura, ecc. Lo storico Giuliano Anselmi indicò la mia fotografia. Padre Bruno, gesuita di San Fedele di Milano, chiese questa istantanea per rappresentare la vita di San Francesco. Sì, questa è la mia foto. Le altre le potrei bruciare. È monocroma ma è a colori, il cielo è il mare, il mare è il cielo. C’è il concetto di circolarità e il cerchio è il simbolo perfetto del mondo, esiste un inizio e una fine. Ma nessuno sa dov’è».

E ci lasciamo con un quesito: «Va più forte il treno o è più alta la Tour Eiffel?». Questo è Franco Fontana.