Maurizio Galimberti e l’affresco sulla corsa

MAURIZIO GALIMBERTI, A VERONA PER UN AFFRESCO SULLA CORSA 

I ritratti mancati: Karol Wojtyla e Pietro Mennea

«A volte il ritmo silenzioso dei miei ritratti pone i soggetti a farsi una domanda… Maurizio dove guardo? cosa faccio? Io non rispondo e scatto senza perdere un secondo… in cinque minuti lo shoot è finito… nell’ordine perfetto». La frase campeggia sopra il divano candido di casa di Maurizio Galimberti, uno dei più grandi fotografi italiani, famoso in tutto il mondo per i ritratti- mosaico realizzati con la Polaroid.

Vado a trovarlo ben consapevole della sua grandezza come artista ancor prima che di fotografo. Il volto espressivo, serio, imperturbabile che avevo conosciuto solo in foto, dal vivo è un’altra cosa: più dolce, enigmatico e con un che di malinconico.

Una voce urla: «Sono al terzo piano», mentre con l’amico fotografo Pierluigi Benini sono finita al quarto.

Scendiamo di una rampa, ed eccolo pararsi davanti a noi: imponente, la voce profonda, cristallina.

Insieme percorriamo un corridoio corto e stretto arrivando nella stanza principale; un rettangolo luminoso, le pareti bianche con due autoritratti, alcuni ready-made, una piccola libreria stracolma di volumi tra cui spiccano quelli sull’artista David Hockney e il fotografo giapponese Araki, poi un tavolo di cristallo e una coppa con una faccina che ride traboccante di cialde di caffè, opera dello scultore e pittore Ugo Nespolo. Lo sguardo sfuggente, con gli occhi arrossati che ogni tanto sfrega a causa dell’allergia ai pollini, mentre la cagnolina Dada (il nome non sembra casuale, attinto forse – ma ho dimenticato di chiederglielo – dal Dadaismo che tanto ama) ci fissa al di là dalla porta a vetri che dà sul terrazzo, con la lingua rossa penzolante a illuminarle il corpicino tozzo e marrone.

L’artista della Polaroid, nato a Como nel ’56 e oggi residente a Milano, ha appena realizzato un progetto per Wings for Life World Run, catturando con le sue istantanee tanti campioni dello sport.

«L’agenzia della RedBull (sponsor della manifestazione), – esordisce – mi ha presentato il progetto e ho accettato. Sono passati da qui Giorgio Calcaterra, pensa che è venuto di corsa, Giovanni Storti, Linus. Ho ritratto anche il pilota automobilistico Daniel Ricciardo, la saltatrice Alessia Trost e tanti altri. Le storie di questi campioni sono cariche di sacrifici, per questo mi piacciono».

Sarà a Verona, il prossimo 3 maggio, ai nastri di partenza della gara, per realizzare il mosaico finale dedicato alla corsa benefica, che raccoglie fondi in favore della ricerca sulle lesioni al midollo spinale.

«Farò un mosaico generale della corsa. Lo realizzerò con la Fuji Instax».

Senz’altro gli verrà voglia di correre… Lui non si scompone e preparatissimo sull’argomento mette in luce: «Ma sai a che velocità va l’auto? A 15 km all’ora. Mi raggiungerebbe subito. Certo, col bel tempo mi metterò a corricchiare, anche se preferisco camminare, qui vicino c’è il parco».

Galimberti ama lo sport, in primis la pallacanestro.

«Gioco ogni tanto a basket con mio figlio; mi piace molto, se non fossi diventato un fotografo sarei stato, forse, un cestista alla Dino Meneghin».

Dallo sport alla fotografia, quando hai iniziato a scattare?

«A 16 anni, ma soffrendo di claustrofobia non amavo stare al buio nella camera oscura, così nel 1983 passai alla Polaroid. Partecipavo a tanti concorsi e li vincevo; talvolta col mio nome, altre con quello di mia mamma. E devo dire che Eleonora Vaghi si aggiudicò parecchi premi fotografici della Fiaf».

Va spedito nella narrazione, poi però fa una pausa dicendo che ha passato i primi cinque anni della sua vita in orfanotrofio (da lì, forse, la sua “allergia” al buio).

«Ho capito subito che la bellezza della Polaroid stava nel creare qualcosa di più artistico, che andasse al di là della fotografia. È bello comporre, assemblare, attingere dal Bauhaus, dal Dadaismo, da artisti come Man Ray e Marcel Duchamp».

E di lui stesso dice: «Io sono Duchamp e Boccioni, perché il mio lavoro sale e scende, da destra a sinistra, con una scomposizione ben precisa. Insomma con la Polaroid posso rivisitare la storia dell’arte».

A 34 anni lascia il lavoro di geometra nell’impresa di famiglia per passare alla fotografia, che prima svolgeva solo“part-time”, specializzandosi nei ritratti fatti con una scatola chiamata “collector”, scoperta nell’89 grazie a un ingegnere della Polaroid che gli permise di ottenere immagini a grandezza naturale.

«All’inizio realizzavo mosaici piccoli che sembravano dei mostri, il primo ritratto lo feci a mio figlio. Poi arrivò Alan Fidler, della Polaroid di Boston, e mi mise a disposizione una scatola bianca (prima era marrone). La luce invece che concentrarsi si diffondeva, donando alle immagini un effetto particolare, molto bello».

Il ritratto-mosaico a cui sei più affezionato?

«Quello realizzato nel 2003 per Johnny Depp. Finì sulla copertina del Times Magazine, mi portò visibilità e prestigio».

Al femminile?

«Lalla Romano (nella libreria intravedo un volume sulla scrittrice e poetessa), nel ’94 le feci un ritratto meraviglioso; mentre c’è feeling con Isabella Ferrari e Maria Grazia Cucinotta. Non con Lady Gaga, è molto spocchiosa. La ritrassi nel 2010, quando riaprì Polaroid; l’artista di Polaroid doveva immortalare l’art director di Polaroid».

Quanti ritratti hai realizzato finora?

«Più o meno un centinaio all’anno, direi quindi all’incirca quattromila».

Quanto tempo ti occorre per creare un ritratto?

«Cinque minuti. Le fotografie sono scattate nell’ordine che vedi, dall’alto al basso, da sinistra a destra, senza cambiare niente. Le istantanee vengono poi attaccate insieme con dello scotch. Non c’è nessuna post produzione della sequenza, tutto è in diretta».

Colore o bianco e nero?

«Nell’istantaneo il colore, per i ritratti e i paesaggi è più fresco».

Nella tua carrellata di volti manca qualcuno?

«Mia mamma, ma penso che non le farò mai un ritratto perché l’emozione sarebbe troppo forte, come dice la frase che ho scritto sul muro di fronte a noi, citando Bresson: “Nell’interiorità silenziosa dei soggetti viene fuori il soggetto”.

Mi sarebbe piaciuto Karol Wojtyla, certo c’è Papa Francesco, ma preferirei Ratzinger perché ha un viso molto interessante. Ma anche Giorgio Napolitano, so che è stato contestato, ma a me piace come persona e lo stimo».

Mentre tra gli sportivi non ha dubbi.

«Federer, perché adoro il suo tennis. Nell’atletica avrei voluto Pietro Mennea, ricordo i suoi arrivi e le sue mandibole contratte. Una volta lo vidi a Roma, rimasi colpito dalla sua faccia pulita e dalla grande umiltà. Aveva raggiunto vette massime come nessun altro prima, eppure era rimasto quello di sempre».

Sito web Maurizio Galimberti

Foto di Pierluigi Benini